L’espansione dell’economia digitale, gestione Previdenziale: a quale fondo iscriversi?

Endorsement e Pubblicità, le distinzioni.

Con l’espansione dell’economia digitale, figure come content creator, influencer, youtuber, tiktoker e streamer sono diventate professioni a tutti gli effetti. Tuttavia, fino a poco tempo fa, il vuoto normativo lasciava questi lavoratori senza una chiara indicazione su come gestire la propria posizione a livello di versamento di contributi.  Con l’introduzione del nuovo codice ATECO 73.11.03 dal 1° gennaio 2025 e la circolare INPS n. 44 del 19 febbraio 2025, la situazione sta cambiando, ma la complessità rimane.

In questo articolo, si cercherà di inquadrare l’attività, dove versare i contributi al fine di evitare errori e omissioni.

Dal 2025, chi svolge attività di influencer marketing può essere inquadrato sotto il codice ATECO 73.11.03. Questo codice include coloro che, attraverso la creazione di contenuti digitali, orientano le scelte del pubblico e promuovono prodotti o servizi. Rientrano in questa categoria youtuber, podcaster, blogger, vlogger, instagrammer, streamer e altri professionisti della comunicazione digitale.

L’inquadramento fiscale non è sufficiente. È essenziale capire come gestire anche l’aspetto previdenziale. L’INPS, nella sua recente circolare, ha stabilito che l’iscrizione previdenziale dipende dalle modalità con cui viene svolta l’attività. Vediamo le tre principali casistiche:

1) Attività d’impresa, Autonomi: gestione Commercianti. Se il content creator svolge attività organizzata in modo imprenditoriale, come la vendita di video, banner pubblicitari e campagne strutturate, è obbligato a iscriversi alla Gestione Commercianti. Questo accade quando l’elemento organizzativo supera quello personale, trasformando la creatività in un’attività commerciale vera e propria.
2) Gestione Separata. L’iscrizione alla Gestione Separata è obbligatoria quando l’attività è svolta prevalentemente in modo personale e intellettuale, senza una struttura imprenditoriale. Questo vale anche per chi crea contenuti, fornisce servizi. E’ importante sapere che anche una prestazione occasionale, se supera i 5.000 euro annui, richiede l’iscrizione alla Gestione Separata.
3) Lavoratori dello Spettacolo – Fondo Pensione Lavoratori Spettacolo (FPLS). Se il lavoro di content creation rientra nell’ambito prettamente artistico o culturale, scatta l’obbligo di iscrizione al Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo. L’ENPALS è confluito nell’INPS tra le forme previdenziali sostitutive dell’AGO con il nome di FPLS.

Endorsement e Pubblicità, le opportune distinzioni. L’INPS distingue tra attività creative e semplici endorsement (sponsorizzazioni). Se il content creator si limita a pubblicizzare un prodotto attraverso la propria notorietà, come l’uso di un cosmetico in un video o una foto con un brand, i contributi vanno versati alla Gestione Separata. Al contrario, se il contenuto assume una forma di spettacolo, come una recensione video articolata o una performance artistica, l’obbligo contributivo si sposta sul Fondo dello Spettacolo; se c’è anche la vendita o la creazione di un proprio brand, allora è commerciale, attività di impresa, autonomi.

Ci sarebbero anche i liberi professionisti che esercitano in proprio una libera professione intellettuale. Generalmente hanno un albo o sono iscritti a registri o elenchi riconosciuti e pagano presso la propria cassa di riferimento o molto spesso in gestione separata, se creano video nella propria materia di studio, specializzazione etc. Alla luce di quanto scritto, in realtà le casistiche sono più articolate. Al fine di evitare contestazioni e sanzioni, è fondamentale che il content creator: formalizzi sempre il rapporto con i brand o le agenzie in quanto un contratto scritto, una committenza precisa, chiariscono la natura della prestazione o delle prestazioni e la previdenza; verifichi la corretta iscrizione all’INPS, per esempio, chi svolge attività mista potrebbe dover versare contributi in più gestioni, e  le dichiarazioni fiscali e previdenziali per evitare errori o omissioni e sanzioni.

Durante A.M. Cristina




Dimissioni giusta causa del lavoratore, preavviso sì o no?

Le dimissioni per giusta causa rappresentano una delle fattispecie più delicate del diritto del lavoro italiano. Questo istituto, previsto dall’articolo 2119 del Codice Civile, permette al lavoratore di interrompere il rapporto di lavoro a causa di un comportamento gravemente inadempiente del datore di lavoro.

La giusta causa di dimissioni si verifica quando vi è un grave inadempimento del datore di lavoro tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno temporanea, del rapporto di lavoro. A differenza delle dimissioni ordinarie, che richiedono un periodo di preavviso, le dimissioni per giusta causa permettono al lavoratore di lasciare immediatamente il posto di lavoro, mantenendo comunque il diritto a determinate indennità, come l’indennità di preavviso e il trattamento di fine rapporto (TFR).

Qual è la differenza tra dimissioni ordinarie e dimissioni per giusta causa?

Le dimissioni ordinarie sono una scelta unilaterale del lavoratore, che decide di interrompere il rapporto di lavoro per motivi personali o professionali, mentre le dimissioni del lavoratore per giusta causa derivano da una situazione di grave colpa del datore di lavoro. Nelle dimissioni ordinarie, il lavoratore è tenuto a rispettare un preavviso, mentre nelle dimissioni per giusta causa il lavoratore è esonerato da tale obbligo.

Le basi giuridiche delle dimissioni per giusta causa trovano fondamento nell’articolo 2119 del Codice Civile, il quale prevede che, in presenza di una giusta causa, entrambe le parti possono recedere dal contratto di lavoro senza preavviso. In questi casi, il lavoratore ha diritto al TFR, e in alcuni casi, all’indennità di disoccupazione (Naspi), purché rispetti le formalità previste dalla legge.

Non esiste un elenco tassativo delle situazioni che giustificano le dimissioni per giusta causa, ma la giurisprudenza ha individuato alcune fattispecie ricorrenti. Vediamo alcune delle più comuni:

  1. Mancato pagamento dello stipendio: il mancato pagamento o, meglio il ritardo reiterato nel pagamento della retribuzione, costituisce una delle cause più frequenti per cui un lavoratore può dimettersi per giusta causa. Il pagamento regolare della retribuzione è un obbligo essenziale del datore di lavoro. Quando questo obbligo viene violato, il lavoratore ha il diritto di risolvere immediatamente il rapporto di lavoro. Ovviamente ci sono casi e casi. Uno degli aspetti più controversi in tema di dimissioni per giusta causa è proprio il numero di mensilità non pagate. La legge non fornisce un numero esatto di stipendi non versati. Nonostante ciò, l’Inps adotta una posizione restrittiva quando si tratta di riconoscere la giusta causa richiedendo che il datore di lavoro non abbia pagato almeno tre mensilità. Questo requisito non è supportato dalla giurisprudenza in materia normativa lavoristica nello specifico, e nonostante le contestazioni dei sindacati e degli avvocati lavoristi, si porta avanti un ulteriore danneggiamento del lavoratore per far valere i propri diritti.
  1. Mobbing: il mobbing si verifica quando il lavoratore è sottoposto a una serie di comportamenti vessatori e persecutori sul luogo di lavoro, tali da ledere la sua dignità personale e professionale. In presenza di mobbing, il lavoratore può dimettersi per giusta causa e ottenere il risarcimento dei danni subiti. Sempre con l’onere della prova alla mano. Non basta una discussione futile!
  1. Modifiche sostanziali delle mansioni: un altro esempio di giusta causa è rappresentato dalle modifiche unilaterali da parte del datore di lavoro delle mansioni assegnate al lavoratore, specialmente quando queste sono dequalificanti. La legge stabilisce che il lavoratore non può essere assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle concordate, salvo in casi particolari.
  1. Violazione delle norme di sicurezza sul lavoro: la sicurezza sul lavoro è un diritto fondamentale del lavoratore. Se il datore di lavoro non garantisce un ambiente di lavoro sicuro, mettendo a rischio la salute e la vita del lavoratore, questo può costituire una giusta causa di dimissioni.
  1. Comportamenti offensivi o discriminatori: anche comportamenti discriminatori, offensivi o violenti da parte del datore di lavoro o dei colleghi superiori possono costituire una giusta causa per le dimissioni. Ad esempio, molestie sessuali o episodi di razzismo possono giustificare l’interruzione immediata del rapporto di lavoro.

Perché le dimissioni per giusta causa siano valide, il lavoratore deve seguire una specifica procedura. Ecco i passaggi principali da rispettare.

  1. Comunicazione telematica delle dimissioni. Dal 12 marzo 2016, le dimissioni devono essere presentate attraverso una procedura telematica. Il lavoratore deve compilare un modulo online tramite il portale Cliclavoro, oppure rivolgersi a un patronato o a un consulente del lavoro che possa inviare la comunicazione per suo conto. La procedura telematica è obbligatoria e serve a tutelare il lavoratore da eventuali dimissioni “in bianco”.
  1. Lettera di dimissioni per giusta causa. Anche se la procedura telematica è obbligatoria, è buona prassi inviare al datore di lavoro una lettera di dimissioni per giusta causa, in cui si espongono le motivazioni dettagliate che hanno portato alla risoluzione del contratto. Nella lettera, il lavoratore deve spiegare chiaramente i motivi delle dimissioni e richiedere le eventuali spettanze (TFR, indennità di preavviso).
  1. Accertamento della giusta causa. Nel caso in cui il datore di lavoro contesti la giusta causa delle dimissioni, potrebbe essere necessario un accertamento giudiziale. In questo caso, sarà il giudice del lavoro a stabilire se il comportamento del datore di lavoro è stato tale da giustificare le dimissioni senza preavviso. Durante il giudizio, il lavoratore dovrà fornire prove concrete dell’inadempimento del datore di lavoro.

Il lavoratore che si dimette per giusta causa ha diritto a:

  • TFR (Trattamento di Fine Rapporto): l’azienda è tenuta a corrispondere il TFR anche in caso di dimissioni per giusta causa.
  • Indennità di preavviso: nonostante l’assenza del preavviso, il lavoratore ha diritto a ricevere l’indennità di preavviso.
  • NASpI: in determinate circostanze, il lavoratore può accedere all’indennità di disoccupazione NASpI, purché la giusta causa venga riconosciuta (l’onere della prova e/o senza contestazione da parte del datore di lavoro o in sede giudiziale o attraverso conciliazione).

Cristina A.M. Durante




Disoccupazione agricola: cambiamo una legge ingiusta

Parificare l’indennità dei lavoratori agricoli a quella degli altri settori

Veri eroi silenziosi della terra. I lavoratori agricoli sono l’asse portante del made in Italy agroalimentare che mantiene il primato mondiale con 583 prodotti Dop e 266 Igp con una produzione di 20,2 miliardi di euro. Eppure ancora oggi una legge ingiusta prevede per i lavoratori agricoli un’indennità di disoccupazione nella misura del 40% della retribuzione, mentre per i lavoratori di altri settori è pari al 75%. Punta a rendere dignitosa e più equa l’indennità di disoccupazione agricola la proposta della Confederazione Italiana Lavoratori illustrata nel corso di un incontro svoltosi alla Camera dei Deputati.

“Questi lavoratori, spesso sottovalutati, sono uomini e donne che ogni giorno fanno un lavoro duro e logorante, con sacrificio, in condizioni difficili e in alcuni casi anche senza diritti”, ha dichiarato il segretario generale Confil Luigi Minoia. “Interpretando il loro disagio, Confil – ha proseguito Minoia – ha chiesto al Parlamento e al Governo la modifica della normativa vigente per fissare l’importo della disoccupazione agricola nella misura del 75% della retribuzione in modo da permettere a centinaia di migliaia di famiglie di vivere con relativa serenità i periodi di disoccupazione involontaria”.

Nel dettaglio la modifica dell’articolo 55 della legge 247 del 2007 è stata al centro dell’intervento di Antonio Barile, esperto welfare, che ha anche fornito una serie di dati: “su un milione di lavoratori agricoli i percettori dell’indennità di disoccupazione sono 593.963 e gli importi medi dell’attuale indennità disoccupazione con la proposta Confil raddoppierebbero”.

All’incontro ha partecipato l’on. Chiara Tenerini, di Forza Italia, prima firmataria, insieme all’on. Marco Lacarra del Pd, di uno degli emendamenti che modifica il trattamento di disoccupazione in favore dei lavoratori agricoli fissandolo al 75% della retribuzione dal primo gennaio di quest’anno. “Siamo di fronte ad una forma di ingiustizia sociale nei confronti di un comparto strategico per il paese – ha affermato l’on. Chiara Tenerini – e intendiamo introdurre, magari con una proposta di legge, quanto meno dei correttivi migliorativi per rendere più dignitosa l’indennità di disoccupazione di questi lavoratori, tenuto conto che l’equiparazione al 75% ha un costo di 120 milioni l’anno”.




La malattia durante il preavviso, cosa accade? Il ruolo dei contratti collettivi

Il preavviso è il periodo di tempo che intercorre tra la comunicazione di dimissioni o licenziamento e l’effettiva cessazione del rapporto di lavoro. Questo arco temporale ha una funzione precisa: deve consentire sia al datore di lavoro che al lavoratore di organizzarsi e riorganizzarsi. Per l’azienda, il preavviso è utile al fine di individuare un sostituto e garantire la continuità operativa. Per il lavoratore, invece, rappresenta un periodo in cui si pianificano al meglio i passi successivi, come la ricerca di una nuova occupazione.

Il preavviso è disciplinato dai contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) e varia in base a fattori come il tipo di contratto, il livello contrattuale, l’anzianità lavorativa aziendale, etc. Generalmente, più lunga è l’anzianità, più ampio sarà il periodo di preavviso.

La malattia può complicare questa dinamica, generando domande e dubbi sulle sue conseguenze e su come il lavoratore possa tutelarsi. Cosa accade se il lavoratore si ammala durante il periodo di preavviso?

Un impiegato con cinque anni di anzianità in azienda decide di rassegnare le dimissioni. Il contratto collettivo prevede un periodo di preavviso di un mese. Dopo due settimane, però, l’impiegato si ammala e il medico certifica una prognosi di dieci giorni. Durante questo periodo, il conteggio del preavviso si interrompe. Una volta terminata la malattia e rientrato in salute, l’impiegato dovrà completare i restanti quindici giorni di preavviso, riprendendo da dove si era fermato.

Un operaio licenziato dall’azienda riceve una comunicazione con un preavviso di tre settimane, come previsto dal suo CCNL. Tuttavia, dopo una settimana, sopravviene una malattia certificata di quattordici giorni. In questo caso, il preavviso rimane sospeso per tutta la durata della malattia. Al termine della prognosi, l’operaio dovrà completare le due settimane di preavviso restanti.  Il rapporto di lavoro non può cessare durante una sospensione giustificata!

I giorni di malattia non si sovrappongono semplicemente al preavviso, ma ne sospendono il decorso. Questo significa che il conteggio dei giorni di preavviso si interrompe per tutta la durata della malattia certificata e riprende solamente una volta che il lavoratore è guarito.

È importante sottolineare che le modalità con cui il preavviso viene sospeso dalla malattia possono variare leggermente in base al contratto collettivo applicato. Alcuni CCNL prevedono disposizioni specifiche o tempistiche diverse, ma il principio rimane invariato: la malattia certificata interrompe il conteggio del preavviso sia che si tratti di dimissioni che di licenziamento.

Questo sistema di tutele è fondamentale per salvaguardare il lavoratore in un momento delicato come quello della cessazione del rapporto di lavoro. Il preavviso non è semplicemente un “periodo di tempo” tra un rapporto lavorativo e il successivo, ma un meccanismo che permette a entrambe le parti (datore di lavoro-lavoratore) di organizzarsi.

Conoscere le “regole” è fondamentale. Ogni caso può avere le sue particolarità, ma il principio resta lo stesso: la malattia non cancella il preavviso, lo mette semplicemente in pausa.

Durante A.M. Cristina




Una sentenza che tutela il diritto di difesa: conta l’invio, non la ricezione.

Nel mondo del diritto del lavoro, ogni dettaglio può fare la differenza. E la Cassazione, con l’ordinanza n. 2066 del 29 gennaio 2025, ha appena chiarito un principio fondamentale: il termine di 5 giorni, per la difesa disciplinare del lavoratore, non si riferisce alla ricezione da parte del datore di lavoro delle giustificazioni del lavoratore ma alla spedizione, all’invio. Un dettaglio? No! Una sentenza che potrebbe cambiare le sorti di molti casi disciplinari e rimettere in discussione licenziamenti già avvenuti. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Il caso concreto: un licenziamento disciplinare ma una difesa non considerata. Un lavoratore viene licenziato per aver eseguito manovre imprudenti, con un mezzo aziendale, causando danni materiali. Decide di impugnare il licenziamento in tribunale, sostenendo che le sue difese, pur inviate nei termini previsti, erano state ricevute in ritardo dal datore di lavoro. La Corte d’Appello, però, respinge il suo ricorso.  Tralasciando, per un attimo, il giustificato motivo oggettivo (l’imprudenza del lavoratore) che tratteremo in separato luogo, la Cassazione ha visto la questione sotto una luce diversa.

L’art. 7 della Legge 300/1970 (lo Statuto dei Lavoratori) prevede un iter ben preciso quando un’azienda intende sanzionare un dipendente:

  1. Comunicazione → il datore di lavoro deve comunicare, in forma scritta, al dipendente le accuse in modo chiaro. Esempio: danno per colpa effettiva del lavoratore per violazione di regole basilari di prudenza ed attenzione e non per fatti accidentali o esterni o che, per quelle attività, doveva essere sorvegliato da un superiore, etc.
  2. 5 giorni di tempo →il lavoratore può inviare la propria giustificazione in maniera chiara e scritta entro questo termine ovviamente a seguito della comunicazione scritta del datore di lavoro nella quale viene esplicitata, per esempio, grave imprudenza della mansione affidata.
  3. Nessuna sanzione anticipata →il datore non può procedere prima della scadenza dei 5 giorni per la difesa del lavoratore.

Ma i 5 giorni si riferiscono alla data di ricezione o alla data di invio delle giustificazioni? E qui entra in gioco la recente sentenza della Cassazione. Il verdetto della Cassazione: conta l’invio, non la ricezione! La Suprema Corte ha chiarito che l’interpretazione corretta dell’art. 7 è la seguente: il lavoratore rispetta il termine di 5 giorni se le sue giustificazioni vengono inviate entro questo tempo, indipendentemente da quando vengono ricevute dal datore di lavoro.  Perché questa interpretazione? La norma tutela il diritto di difesa del lavoratore. Non si può far dipendere il diritto di difesa da eventuali ritardi nella ricezione da parte dell’azienda. Il principio di certezza del diritto impone di far riferimento a un elemento oggettivo e documentabile: la data di invio.   

Cosa cambia per aziende e lavoratori? Questa sentenza ha un impatto concreto sulle procedure disciplinari e sulle strategie difensive in ambito lavorativo.

I datori di lavoro devono controllare le date di spedizione, non solo quelle di ricezione, altrimenti rischiano di vedersi annullare un licenziamento se non considerano una difesa inviata nei termini; devono evitare sanzioni disciplinari prima della scadenza effettiva dei termini.

Per i lavoratori: l’invio delle giustificazioni sempre entro 5 giorni; devono conservare prova dell’invio, per esempio pec o raccomandata, e possono impugnare un licenziamento, se il datore di lavoro non ha considerato la difesa (legittima) perché ne è venuto a conoscenza dopo i termini di legge.

DURANTE A.M. CRISTINA




Pensioni, Quota103, Bonus Maroni 2025, conviene sì o no?

In questo articolo faremo il punto sul Bonus Maroni. Molti sono gli interrogativi, i dubbi, le perplessità…Se resto a lavoro, nonostante io sia un lavoratore prossimo alla anticipata, e prendo di più in busta paga, prenderò meno nella pensione in futuro, in quanto una quota dei contributi che avrebbero dovuto versare all’Inps, mi verrà data direttamente in busta paga? Conviene quel 10% circa in più? È lordo? È netto?

Escludendo chi, per sua libera scelta, vuole rimanere a lavoro, focalizziamoci un attimo sulle pensioni anticipate, oggetto del Bonus Maroni, in particolare su Quota 103.  

Chi ha un po’ di anni in più lo conosce come Bonus Maroni, dal nome del Ministro del Lavoro, ai tempi della sua prima introduzione, nel 2004/2005. Oggi è noto come “Incentivo per la prosecuzione dell’attività lavorativa” ed è pensato, come indica la denominazione, all’incentivo, per coloro i quali, pur avendo diritto ad andare in pensione con Quota 103 (anticipata flessibile) o per coloro che, pur avendo diritto ad accedere alla pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi (uomini) e 41 anni e 10 mesi  (donne) di contributi,  restano a lavoro.

Chi dovesse avere i requisiti per andare in pensione con le anticipate, e decidesse di continuare a lavorare, con questa adesione, potrebbe chiedere di avere i “suoi” contributi previdenziali in busta paga. Contributi pari al 9,19% per il settore privato, e pari al 8,85% per il pubblico, in linea di massima 10%. Si aspetta circolare applicativa INPS per maggior dettagli.

Sarà conveniente rimanere?  Ripercorriamo Quota 103 punto per punto.

La pensione anticipata flessibile può essere concessa se vengono soddisfatti i seguenti requisiti. Entro il 31 dicembre 2025: età minima 62 anni e almeno 41 anni di contributi, raggiungibili anche attraverso il cumulo ossia sommando i versamenti accreditati presso differenti gestioni previdenziali (si considerano i soli fondi amministrati dall’Inps, con esclusione delle casse dei liberi professionisti).

Una volta raggiunti i requisiti per Quota 103, la decorrenza è posticipata per le finestre mobili di attesa, le quali, per chi maturerà i requisiti entro il 31 dicembre 2025, saranno pari a: 7 mesi per i lavoratori del settore privato; 9 mesi per i dipendenti pubblici. Si tratta dunque delle stesse tempistiche di attesa previste per chi ha maturato i requisiti nel corso del 2024 (le precedenti finestre di attesa, valide nell’ipotesi di perfezionamento delle condizioni della Quota 103 entro il 2023, sono rispettivamente pari a 3 ed a 6 mesi). Si ricordi il diritto alla cristallizzazione!

All’assegno pensione Quota 103, in caso di maturazione dei requisiti entro il 2023, viene applicato un massimale d’importo, corrispondente a 5 volte il trattamento minimo INPS (2.993,05 euro mensili lordi) fino al raggiungimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia ordinaria, stante alla data dello scrivente, 67 anni.

Per chi matura i requisiti per la pensione Quota 103 nel 2024, l’importo massimo erogabile è 4 volte il minimo (2.394,44 euro mensili lordi), in leggero rialzo per il 2025 (2.413, 60 euro mensili lordi).

Con Quota 103, la pensione verrà calcolata usando esclusivamente il sistema contributivo. Questo metodo di calcolo, basato sui contributi versati, di conseguenza sul montante contributivo e sull’età pensionabile (incide il coefficiente di trasformazione che differisce con l’età) è spesso sfavorevole. Vi sono, comunque, alcuni casi in cui la penalizzazione, rispetto al sistema di calcolo retributivo- misto (18 anni al 31 dicembre 1995, retributivo fino al 31 dicembre 2011, da quella data poi contributivo; no 18 anni al 31 dicembre 1995, retributivo fino al 31 dicembre 1995, indi poi contributivo) potrebbe risultare minima o nulla, e addirittura, vi sono, alcune ipotesi in cui tale calcolo potrebbe risultare più conveniente.

Considerando la proroga alle stesse condizioni, persisteràper il 2025, il divieto di sommare la pensione Quota 103 con i redditi da lavoro, tranne nel caso di compensi derivanti da lavoro autonomo occasionale (tetto massimo di 5.000 euro lordi all’anno).

Alla luce di tutto quello che concerne Quota 103, il beneficio, a favore di chi si trattiene al lavoro, nonostante il raggiungimento dei requisiti per la pensione anticipata flessibile, consiste in un esonerocontributivo. Nello specifico, viene meno ogni obbligo di versamento contributivo da parte del datore di lavoro della quota a carico del lavoratore, a decorrere dalla prima scadenza utile per il pensionamento anticipato prevista dalla normativa vigente.

La quota di contributi a carico del lavoratore viene corrisposta interamente in busta paga. In questo modo, il dipendente ottiene un bonus sullo stipendio, variabile in base alla retribuzione imponibile previdenziale. In pratica, la somma che normalmente viene trattenuta, a titolo di contribuzione a carico del lavoratore e versata all’Inps, viene erogata direttamente al lavoratore, come parte della sua retribuzione, risultando però non imponibili ai fini fiscali, quindi netta.

Alla luce di quanto esposto, è necessario valutare attentamente, i pro e contro, se avvalersi o meno dell’incentivo al trattenimento in servizio, in quanto la decontribuzione porterebbe in futuro ad un assegno pensionistico più magro.

DURANTE A.M. CRISTINA




Oneri contributivi, lavoro, pensioni, i tanti volti dello stesso problema

Gli oneri contributivi rappresentano una voce rilevante del costo del lavoro e sono una, fra le tantissime motivazioni, del dilagare del lavoro discontinuo, precario, in quanto le aziende sono alla ricerca di forme contrattuali meno onerose. Il costo della previdenza è sempre in aumento. Negli anni Settanta bastava un’aliquota inferiore al 20% per coprire tutte le prestazioni erogate dall’Inps, non solo le pensioni dunque. Oggi, nel caso del lavoro dipendente, occorre il 33% per le sole pensioni, senza peraltro poter assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite.

Il “nostro” sistema pensionistico è fondato sul criterio della ripartizione, in maniera semplicistica: gli attivi al lavoro pagano le pensioni, confidando che ci saranno altri lavoratori che pagheranno, grazie ad un patto intergenerazionale garantito dallo Stato, le loro pensioni, quando verrà il loro turno. Ma gli attivi pagano gli oneri contributivi che finiscono nel calderone anche dell’assistenza. Sono in atto ampi processi di crisi: crisi del lavoro, crisi delle assunzioni, crisi demografica (pochi figli), crisi del mercato, crisi di riforme strutturali del lavoro, ed ecco che il numero degli occupati al lavoro diminuisce ed aumenta quello degli anziani, i quali vivono più a lungo. Sia chiaro: il finanziamento a capitalizzazione (i versamenti di ciascun lavoratore e i relativi rendimenti capitalizzati fornenti il montante su cui viene calcolata la pensione) non è la panacea a tutti i mali!

Nell’Europa continentale, i sistemi pensionistici obbligatori, generalmente a ripartizione, sono strettamente connessi agli assetti complessivi della finanza pubblica. Dalle trasformazioni demografiche, economiche ed occupazionali derivano non solo rischi di insostenibilità dei modelli previdenziali, a danno dei futuri pensionati italiani, soprattutto per coloro che hanno cominciato a lavorare a partire dal 1996 ma anche ostacoli all’ingresso nel mercato del lavoro della manodopera più giovane, tenuta a contribuire e ad assicurare – sempre nella logica della ripartizione – i flussi finanziari occorrenti al pagamento dei trattamenti in essere con quote crescenti reddituali.

Già nel 1993, il famoso Rapporto di Jacques Delors evidenziava che “il livello elevato degli oneri sociali si poneva come uno dei tanti ostacoli all’occupazione, esercitava un effetto dissuasivo alla stabilizzazione, favorendo “l’economia parallela”, incidendo particolarmente sull’occupazione delle piccole e medie aziende e, portando la delocalizzazione degli investimenti e delle attività”. A ciò si aggiunge una scarsa politica che non “aiuta” le aziende nelle assunzioni a più ampio respiro, cioè più stabili. Dulcis in fundo: il nodo della previdenza italiana che non divide l’assistenzialismo dalla previdenza vera e propria. Separare previdenza e assistenza, oltre a far chiarezza sulle diverse voci che compongono la spesa pensionistica, è una prova di equità per chi ha versato contributi e chi no. Si dovrebbe fare assistenzialismo diversamente! Separare assistenza e previdenza è propedeutico alla necessaria riforma del sistema PENSIONI, dichiara a gran voce la CONFIL.

Una corretta valutazione della spesa è fondamentale per capire come e dove agire. Una stima separata è necessaria sia nel confronto interno che europeo.  Determinare una differenziazione è utile per evitare quelle speculazioni sui numeri della previdenza che spesso sono usati in modo fuorviante e strumentale, chiosa il Segretario Generale della CONFIL Luigi Minoia.

Durante A. M. Cristina




Bilancio previdenziale, i veri numeri della spesa pensionistica

Le proposte Confil: pensione di garanzia e aumentare i coefficienti

Il segretario generale Confil Luigi Minoia ha partecipato a Roma alla presentazione del

12mo rapporto del bilancio del sistema previdenziale italiano illustrato dal presidente del Centro Studi e Ricerche “Itinerari Previdenziali” prof. Alberto Brambilla alla presenza del presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana.

“Si tratta – ha commentato il segretario generale della Confederazione Italiana Lavoratori – di una delle poche analisi veritiere della spesa pensionistica che va separata da quella dell’assistenza. Ci dice che l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil è dell’11,64 % al lordo dell’Irpef, che al netto si riduce addirittura all’8,47%, molto al di sotto della media europea. Il saldo tra entrate contributive Inps e spesa pensionistica vede un attivo di ben 42,5 miliardi.

È un valore che ci consente un’elaborazione strategica di una nuova prospettiva di welfare che coniughi sostenibilità con solidarietà. Per questa ragione la Confil propone una pensione contributiva di garanzia e l’aumento dei coefficienti di trasformazione per migliorare le prestazioni pensionistiche”.

Durante A.M. Cristina


RAPPORTO N.12 ANNO 2025, IL BILANCIO DEL SISTEMA PREVIDENZIALE ITALIANO. Il SEGRETARIO GENERALE DELLA CONFIL A ROMA: SE SI SEPARA L’ASSISTENZA DALLA PREVIDENZA SI POSSONO MIGLIORARE LE PENSIONI.

Bilancio Inps, pesa la spesa per l’assistenza




Dimissioni volontarie…? Elemento ostativo per fruizione Naspi, precisazioni.

La Naspi dura la metà delle settimane lavorate nei 4 anni precedenti. Se un lavoratore, per esempio, ha lavorato 4 anni consecutivi per lo stesso datore di lavoro, in caso di licenziamento ha diritto a 24 mesi di Naspi. In tal caso, il datore di lavoro deve versare ticket licenziamento. Il contributo è previsto dalla Legge Fornero in misura pari al 41 % del massimale Naspi (stabilito anno per anno dall’Inps) per ogni mese di durata del rapporto di lavoro.

 Se invece il dipendente dà le dimissioni, il datore non deve nulla. Ma se, dopo le dimissioni, il lavoratore trova subito un nuovo impiego, anche solo di poche settimane, al termine di quest’ultimo non può tornare a prendere i 24 mesi di Naspi. Per rendere effettivo il meccanismo di fruizione dell’ammortizzatore sociale, il nuovo lavoro deve durare almeno 13 settimane, altrimenti, le dimissioni precedenti resteranno un elemento ostativo alla Naspi. Questa nuova regola vale per chi presenta la domanda di Naspi entro i primi 12 mesi successivi alle dimissioni.

Durante A. M. Cristina




Coefficienti di trasformazione più basse nel 2025-2026, pensioni più basse

Le pensioni tornano a scendere. Chi avrà la decorrenza della pensione nel 2025, avrà diritto a un assegno pensionistico più basso rispetto a chi ha deciso di lasciare il lavoro entro la fine del 2024. Il ministero del Lavoro, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, ha pubblicato, sul proprio sito istituzionale (nella sezione pubblicità legale), il decreto direttoriale del 20 novembre, concernente la revisione biennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo, che aggiorna la Tabella A dell’allegato 2 della Legge n. 247/2007 e la Tabella A della Legge n. 335/1995.
Di cosa si tratta? Lo diremo in maniera semplicistica: il lavoratore, durante tutta la sua vita lavorativa, accantona ogni anno i contributi.  Questi, al momento del ritiro dal lavoro, vengono trasformati in pensione per mezzo dell’applicazione di coefficienti chiamati di trasformazione che variano in base all’età e periodicamente revisionati. L’ultima revisione c’è stata nel 2022, riferita al biennio 2023/2024.

Un esempio concreto. Un lavoratore di 67 anni con 400mila euro di contributi accantonati (c.d. montante contributivo) se fosse andato in pensione nel 2024, avrebbe avuto diritto a una pensione annua di 22.892 euro; di 22.432 euro annui invece nel 2025, con 460 euro in meno (circa 35 euro al mese) a parità di montante e di età.

Come si esegue in maniera semplice il calcolo: coefficiente di trasformazione anno 2024 5,723 %; coefficiente di trasformazione anno 2025 5,608 %.

  • montante x 5,723 % :13 = 1.760,92 euro (mensile pensione lordo)
  • montante x 5,608%: 13 =1.725, 54(mensile pensione lordo)

Durante A. M. Cristina