Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) è un importante elemento “distinto” della retribuzione che ogni lavoratore subordinato matura durate il proprio percorso lavorativo. Si tratta di una sorta di “somma depositata” che l’azienda accantona e che il lavoratore potrà ricevere alla cessazione del rapporto di lavoro.
Tuttavia, negli ultimi anni, il tema dell’anticipo del TFR in busta paga ha generato diversi interrogativi tra i lavoratori, soprattutto alla luce delle normative temporanee introdotte e poi non più rinnovate.
In questo articolo esaminiamo, se è legale inserire il TFR in busta paga, cosa è accaduto tra il 2015 e il 2018 e quali sono le conseguenze fiscali per i lavoratori che hanno ricevuto mensilmente le quote di TFR in busta paga.
Il Trattamento di Fine Rapporto è una somma di denaro che il datore di lavoro accantona ogni anno per ciascun lavoratore subordinato. Questo ammontare viene calcolato secondo un preciso metodo, con alcune variazioni dovute all’adeguamento, all’inflazione.
Nel 2015, la Legge di Stabilità aveva previsto, in via sperimentale, l’erogazione mensile della quota trattamento di fine rapporto per i periodi 1° marzo 2015- 30 giugno 2018, per il solo settore privato, direttamente in busta paga. Questa possibilità, conosciuta anche come Quota Integrativa della Retribuzione, aveva l’obiettivo di incentivare i consumi, offrendo ai lavoratori maggiore liquidità immediata.
L’opzione era disponibile solo per i lavoratori del settore privato che avevano almeno sei mesi di anzianità presso lo stesso datore di lavoro. Tuttavia, non tutti potevano accedere a questa opzione: erano esclusi, ad esempio, i dipendenti del settore pubblico, gli apprendisti e coloro che lavoravano in aziende in crisi o sottoposte a procedure concorsuali.
La possibilità di richiedere il TFR mensilmente in busta paga è cessata il 30 giugno 2018. Da quella data, non è più legale per le aziende versare quote di TFR mensili nella busta paga dei lavoratori, salvo nel caso dei lavoratori domestici. Attualmente, per la stragrande maggioranza dei lavoratori, il TFR viene accantonato e liquidato alla fine del rapporto di lavoro o, in alcuni casi, versato in fondi pensione o altre forme previdenziali complementari.
Un’importante eccezione riguarda i lavoratori domestici (badanti, colf, babysitter). Per questo settore, la possibilità di liquidare mensilmente il TFR rimane attiva. Tuttavia, anche in questo caso, il lavoratore deve essere consapevole delle implicazioni fiscali, poiché le somme ricevute a titolo di TFR seguono la tassazione ordinaria del reddito.
Uno degli aspetti più controversi del TFR in busta paga è proprio la tassazione. Mentre il TFR accantonato e poi liquidato al termine del rapporto di lavoro, beneficia di una tassazione agevolata, il TFR ricevuto mensilmente in busta paga è soggetto alla tassazione ordinaria del reddito. Questo significa che le somme di TFR in busta paga, rendono questa voce parte della retribuzione ordinaria con conseguenze fiscali e contributive più onerose per il lavoratore.
Questo ha generato una situazione paradossale: se da un lato i lavoratori hanno beneficiato di una maggiore liquidità immediata, dall’altro hanno subito un trattamento fiscale meno vantaggioso.
Oltre alla possibilità (ormai scaduta) di ricevere mensilmente il TFR in busta paga, esiste un’altra forma di anticipo del TFR prevista dalla legge e ancora vigente. In particolare, il lavoratore ha diritto a richiedere un anticipo del TFR nel corso del rapporto di lavoro, ma solo a specifiche condizioni:
- Il lavoratore deve aver maturato almeno 8 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro.
- L’anticipo può essere richiesto solo una volta nel corso dell’intero rapporto di lavoro.
- L’anticipo può essere concesso fino a una misura massima del 70% del TFR maturato fino a quel momento.
Questo anticipo può essere richiesto per specifiche esigenze come l’acquisto della prima casa, spese sanitarie straordinarie o per altre necessità gravi da documentare.
È doveroso sottolineare che la concessione dell’anticipo non è automatica, dipende dalla discrezionalità del datore di lavoro, il quale può anche non accogliere la richiesta qualora non ci siano fondi sufficienti o se la richiesta non rispetta i criteri previsti dalla legge.
Durante A.M. Cristina